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ANGIOLINA… ANZI NO, NATALINA!

Prima di “darvi in pasto” il primo racconto che apre la raccolta “Donne di Maremma” di Luciana Bellini urge una breve premessa. La storia s’intitola “Angiolina”, ma in realtà la donna di cui parla si chiama Natalina, è una signora in carne e ossa che sfiora la novantina e, a dispetto degli acciacchi dell’età, è ancora lucida e ha una memoria di ferro. Natalina è la stessa che faceva 121 scalini al giorno con le brocche dell’acqua una vita fa ed è la protagonista del racconto che apre “Donne di Maremma”. La signora in questione è un vero e proprio personaggio, oggi risiede in una residenza assistita nel viterbese, ma in molti si ricordano ancora di lei in Maremma per i suoi poteri di guaritrice dal fuoco di sant’Antonio, una sorta di pranoterapeuta “ante litteram”. La figlia di Angiolina-Natalina ha letto con piacere il libro di Luciana e ha riportato il contenuto del racconto che la riguarda all’anziana madre, che si è detta contenta di questo omaggio letterario e aspetta di incontrare Luciana che andrà presto a farle vista per raccontarle altre storie e aneddoti della sua vita che andranno a fornire nuovi spunti alla scrittrice. Ed ora “godetevi” il racconto perché è proprio di lei che si parla:

Angiolina

Da piccina Angiolina stava a le Case: a Poggioferro.

Erano tre figlioli: du’ femmine e ’n maschio più piccino.

’L su’ babbo faceva ’l campo: pigliava ’n pezzo di terra, la ripuliva, eppoi la sementava e per du’ anni pigliava ’l fruttato; allora, chi aveva parecchia terra la dava via, così se la ritrovava pulita.

Lui aveva poca salute, e la su’ moglie gl’andava dietro: l’aiutava e gli faceva compagnia. Stavano in una capanna, ché a tornà a casa la sera gli scomodava. A guardà i figlioli ci pensava ’na donna del vicinato, e ’sta Maria rassicurava la mamma: “Te va’ tranquilla ché a’ tu’ cittini ci penso io!” gli diceva. ’Na volta li mise a letto ’nsieme a altri tre o quattro ragazzetti e la mattina dopo si ritrovarono pieni di pidocchi.

Campà campavano, ma figuriamoci…

E quando ’l su’ babbo sentì di’ che ’l Sòr Guglielmo cercava ’n contadino, lui pensò che al podere, la famiglia avrebbe mangiato. A settembre andarono. L’unica cosa che si portarono, oltre ai carabàttoli di casa, fu ’l somaro: ’l su’ babbo l’aveva dovuto comprà ché l’acqua bisognava l’andassero a piglià a Poggioferro.

Angiolina, che aveva nov’anni e era la più grande, principiò a fa’ tutte le faccende: andava a pulì ’l prato dai sassi e dai roghi, a fa’ la siepe co’ le marruche, a falcià, a miete… E ’l su’ babbo ch’era sempre più maliccicàto, dopo gl’insegnò a lavorà co’ la coltrìna, e piano piano lei prese confidenza co’ le vacche. Un anno c’andò ’l su’ cugino a aiutalli: lui e Angiolina, da soli sementarono 15 quintali di grano.

La su’ mamma mungeva le pecore, faceva ’l cacio, pensava al pollaio e all’altre bestiole; lei era l’ultima a andà a letto e la prima a levassi. Quando s’alzavano quell’altri trovavano la colazione pronta: ’na fetta di polenda e via. A lavà i panni andava giù al fosso, e quando faceva ’l bòcato co’ la cenere, lì ’n ginocchioni a sciaguattà c’era anche Angiolina.

Pe’ arrivà a scuola ci voleva ’na mezz’oretta comoda, ma lei, la mattina prima di partì di casa doveva andà a toccà le pecore a la su’ mamma. Angiolina, insieme a la su’ sorella e a un altro ragazzetto che trovavano pe’ la strada, dovevano passà ’l fosso, e quand’aveva la piena era ’l su’ babbo che a cavallo del somaro li faceva attraversà di là. Loro, e dopo ’l su’ fratello, quel pochino a scuola ci so’ stati, ma la su’ mamma ’n sapeva né lègge nè scrive’. ’L su’ babbo aveva fatto la seconda, ma a la scuola serale.

Un giorno sì uno no, Angiolina co’ la somara andava a Poggioferro a pienà du’ barlette d’acqua: e tra andà e tornà anche quello era ’n bel viaggetto.

Al podere ’l lavoro era tanto e ’l guadagno misero: mezza roba era di loro e mezza del padrone.

’Na volta la su’ mamma la mandò a portà ’na forma di cacio al padrone, e Angiolina ’nvece del bastio a la somara gli mise la sella, così ci stava più comoda. La forma se l’era messa davanti in un paniere. Arrivata a ’n certo punto c’era ’n gorello d’acqua e la somara che voleva andà a beve cambiò direzione, e lei: “Ariquà! Ariquà!” cercava di reggela, ma la ciuca volle fa’ di testa sua e co’ ’no sbuchettone gli fece girà la sella e lei cascò. Si fece ’no spacco nel ginocchio e ’l sangue che gl’usciva se l’asciugava co’ le foglie. Poi raccattò la forma del cacio e riprese via come se niente fosse. Quando la moglie del padrone la vide s’allarmò: “In queste condizioni, te a casa non ci vai…” Fece chiamà ’l dottore eppoi mandò ’l su’ figliolo a avvisà ’l su’ babbo e la su’ mamma che Angiolina  pe’ du’ o tre giorni sarebbe rimasta lì da loro.

In quel podere ci stettero vent’anni.

Dopo andarono a Massa: a Poggio Talpa. ’L su’ babbo che ’n voleva sta’ più sott’al padrone, prese i soldi a la banca e comprò lassù. Ma quella era ’na terra che ’n rendeva e dopo quattr’anni rivendette a ’n calabrese e loro tornarono via.

Angiolina, che allora era già sposata e aveva ’na figliola. d’accordo col su’ marito decise di mette’ su famiglia per conto suo a Scansano. ’L su’ babbo e la su’ mamma comprarono ’n pezzetto di terra co’ ’na casina lì ’nfond’al paese, ch’a loro gli bastava: quell’altra figliola s’era sistemata e ’l maschio faceva l’aiuto meccanico a Grosseto.

’L marito di Angiolina andava a opera: a dicioccà giù pell’Aquilaia, a taglià… Poi fece ’na domanda ’n Comune come operaio e lo presero. Gli davano 28 mila lire ’l mese. Ma lui s’era pentito e diceva: “Io smetto di lavorà ’n Comune, ché a taglià pigliavo di più!” E lei lo sconsigliava: “E’ vero, ma qui sei meno sacrificato, a mangià vieni a casa, laggiù ci devi andà ’n bicicletta. Pensaci bene…” E lui gli dette retta e rimase lì finché n’andò ’n pensione.

Ingegnà s’ingegnava: faceva l’orto e aveva sempre avuto la vigna a mezzo. Ma anche lei si dava da fa’: portava l’acqua a du’ o tre famiglie del paese, e a ’na Signorina tutti i giorni andava a lavagli i piatti.

Angiolina, che di casa stava su ne le soffitte del Palazzo Rosso, l’acqua la doveva portà anche per sé, e co’ le brocche piene salì 121 scalini…