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Luciana e la sua terra sono una cosa sola. Fin da piccina viene travolta da uno ‘tsunami’ di persone e cose che si muovono in un paese e in un territorio fuori dal comune. La Scansano del Dopoguerra è un paesino in fermento, dove arrivano da Grosseto le famiglie “bene” per estatare e si mischiano alla gente del posto, dando vita a un mix di rapporti umani e sociali da cui spigolare episodi, aneddoti, racconti popolari. Luciana nasce nel “vicolo”, molto di più di una viuzza del borgo maremmano, ma una magica alchimìa di quotidianità paesana che fin da “cittina” la conquista e la istruisce del mestiere di vivere.

Senza il vicolo e senza Scansano Luciana non avrebbe assorbito quel prezioso “background” che si è depositato nella sua memoria, anno dopo anno, fino a far emergere sulla pagina uno straordinario ritratto della sua terra.

Leggendo i suoi scritti Scansano si riflette nell’intimità di una camera, nel chiasso di piazza, nel viavai sugli usci delle botteghe, nelle vigne del Morellino e nei paesaggi selvaggi di questo scorcio di Maremma che Luciana sa “dipingere” così bene, facendo di ogni bozzetto un’opera d’arte.

Quella terra le è rimasta “appiccicata” addosso come un marchio di fabbrica e lei sa trasmetterne odori e sapori come nessuno. Per questo le lasciamo, volentieri, la parola in questi due racconti sulla vendemmia e l’ “ulivatura”:

 


Si vendemmia

La vendemmia, la vedevi! la sentivi! la guardavi! l’assaggiavi, tutta.

Ora, bevi il vino, lo sorseggi, scegli la bottiglia ‘di nome’ o dell’annata consigliata, ma l’odore de la vendemmia, quello, chi te lo vende?

La vendemmia, allora, era di tutti: di Meco, di Cecco, di Nanni e di Tito.

Somari e padroni viaggiavano a giornata: chi ’na sòma, chi tre. Allora non si parlava di ettari ma di ràsole.

Il viavai giù pe’ le cantine cominciava almeno 15 giorni prima, ché i padroni dovevano bagnà botti, tinelli e bigonzi. Poi, prima del dunque, l’òmini capavano i grappoli più schietti e, le donne le legavano due a due co’ la corda e l’attaccavano a la pertica ’n cantina, ché poi, ’na ciocchina a la volta, si mangiava come companatico.

Giù pe’ que’ vicoli in quei giorni lì c’era più chiasso di sempre: cittini, somari, òmini e donne; chi co’ la palla, chi co’ la sòma, chi col corbello e chi co’ le brocche dell’acqua, tutti si vendemmiava insieme a tutti.

L’odore dell’uva ammostita saliva e scendeva le scale, rampicava sù nel muro dell’orto, faceva ’l giro de la Piazzetta e rigirava di là. E quell’acuto dolce scappava di cantina anche quando ’l padrone, finita l’opera, chiudeva l’uscio e andava a cena.

Gosto, Tònio e Gigi, mattina e sera passavano giù ché bisognava appozzà; eppoi c’era da svinà: ’l bianco dopo sei-sette giorni e ’l nero du’ o tre giorni dopo.

E l’òmini col grembio di balla davanti e le mani tinte dall’uva e dal mosto assaporavano ’l vino suo o quello di chi aveva svinato ’l giorno avanti e già avevano ’n bocca anche quello che avrebbero assaggiato ’l giorno dopo. Le donne, qualcuna s’azzardava a mandà giù ’n sorsino di quel vino torbo ma, quello più abboccato però.

Noi cittini bisognava aspettà la vinella. E, io, quando vedevo che ’l mi’ babbo metteva la vinaccia dentro al tinello e la ricopriva d’acqua, già mi sentivo pizzicà la lingua… quant’era bòna quella bibita rosa col frizzantino dentro.

A di’ la verità, giù per quei vicoli l’odore del vino si sentiva anche prima di vendemmià ché, coll’uva sciupata: quella mangiata da le vespi e dall’uccelli, l’òmini ci facevano ’l bigonzàccio. Con quei grappoli bianchi e neri mischiati insieme ci veniva ’n vinettàccio ma, chi ce l’aveva beveva volentieri anche quello.

Luciana Bellini

 


E’ tempo d’ulivatura!

“Anche se pare d’ésse in piena d’estate è già tempo d’ulivatura!” mi dice Gina.

“Eh sì, tra qualche giorno si comincia anche noi… ” gli rispondo io col sospiro e l’aria rassegnata. E lei mi brontola coll’occhi e risoluta mi fa: “Andà all’ulive ti mette pensiero?! Oggigiorno l’ulivatura è un divertimento! Le piante so’ potate a modo, la terra è spianata, appareggiata; eppoi ci so’ le macchine, ma anche chi le fa sempre a mano cià tutta la su’ attrezzatura. Ora, attaccate a cogliele d’ottobre e prima ch’arrivi ’l freddo vi sete già levati ’l pensiero. Mica come prima… un anno, noi, mi ricordo si finì prima di sempre: era l’ultimo dell’anno. Mi pare di vedello ’l mi’ babbo: lui lemme lemme co’ la somara carica e io le mi’ sorelle e la mi’ mamma avanti avanti ci si spicciava a caminà ché si voleva andà al Ringraziamento. Quante freddate s’è patito… a quei tempi chellì veniva’ certe nevicate, e sicché c’era da combatte’ anche con quella! S’era dolco n’era niente, ma quando tirava ’l ventarone, ’n quel poggetto ti portava via! La tramontana mozzava… t’entrava anche ne’ budelli, e te lì: ’n ginocchioni per terra dovevi guardà di spicciatti e pienà ’l pianere. Raccatta raccatta raccatta, si raccattava senza alzà mai ’l capo; certo, se la giornata era pròpio tremenda, allora bisognava accende’ ’n focarello ché le mani a forza di rifrugà tra l’erba molla e le zolle ’un si movevano più. L’ulive, ora, e chi le raccatta più? allora, bacate o non bacate, marce o muffate si chiappavano tutte! Eppure, dopo, quando nell’uliveti ci passavano le donne che andavano a rospolà, un’uliva di qua una manciatina di là, a forza di girà anche loro rimediavano l’olio per casa. Il mi’ babbo c’aveva un bell’uliveto ché, 40 piante, allora, volevano di’! Noi, in confronto a chi andava a rospolà s’era signori ché, avé lo ziro pieno a quei tempi n’era da tutti. La mi’ mamma però, l’olio lo dosava ché, bisognava vendelo! Ne le minestre e ne le zuppe, lei ci metteva sempre quello rifritto: l’olio che restava ne la padella dop’avé fritto le polpette ’l cavolo o l’agnello, lo colava in un vaso e via via poi lo riadoprava. Allora n’era mica come ora che untate quanto vi pare e piace, e tanto, vi lamentate! Ooh, io-mi-domando-e-dico… se andà all’ulive vi sembra fatica, noi, che si doveva fa’? Oggigiorno chi stà al podere l’uliveto l’ha ’nfondo a le scale e chi sta ’n paese piglia la macchina e arriva sul posto senza manco fa du’ passi! Noi, ci si metteva un’ora a andà e una a tornà. Si sarà state stanche? eppure, pe’ la strada si cantava, si faceva’ l’indovinelli o si diceva gli scioglilingua. E quando la mi’ sorella più piccina attaccava a ciondolà e diceva che gli dolevano i piedi, il mi’ babbo sornione gli faceva: O come fanno a fatti male i piedi che si va a cavallo de la la strada?”

Gina parla con me, ma io vedo che guarda lontano: là, oltre il sole, più su dell’ uliveto.

Luciana Bellini