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Argia, la mamma delle bambole

Luciana Bellini ci porta nel suo paese delle meraviglie, a casa di Argia, la mamma delle bambole, in un crescendo di emozioni e stupore: 

La mamma de le bambole

 

C’era chi diceva Argia la moglie di Ugo, chi Argia la sarta, o Argia di Corte.

Io che allora ero ’na cittìna, dentro di me la chiamavo Argia de le bambole.

Su su su, salita la scalinata ritta e buia de la Corte, c’era la su’ casa. Già quel cancellino, quelle scalette basse e quella Madonnina lì ’ncastrata nel muro t’invitavano a entrà. Argia apriva e sorrideva gentile: “Accomodatevi accomodatevi, vi aspettavo…”

Argia ’n quelle stanze era la Regina, e io facevo faccia da ride’, ma piano, ché lì ’n quella casa mi pareva d’ésse ’n chiesa.

Argia era sempre ben vestita: ’l ciuffo pettinato alto con un gran fermaglio, l’orecchini e la collana coi chicchi come quelli de le melagrane… I modi e la voce da Signora, e io, vergognosa la guardavo. “Dopo ti porto di là, lo so che le bambine come te sono curiose di vedere le mie bambole; lo so, c’è un uccellino che me lo dice in un orecchio…”

E io facevo di sì col capo e col cuore: mi bastava di guardalle, ’n c’avrei mai pensato a toccalle; prima cosa perché me l’aveva detto la mi’ mamma, eppoi perché erano le bambole di Argia, e lei le rispettava!

Che era la mamma, si capiva da come le teneva. Tutte appareggiate: i capelli pettinati col fiocco o col cappellino di paglia co’ le ciliegine e i fiori. Tutte vestite da gran signore… e che stoffe! ’l velluto liscio liscio, ’l taffettà cangiante, il raso lucido… trine, nastrini, gale, e collane! E certe scarpine, da Principesse! Quella bionda coi codini, quella mora co’ boccoli, quell’altra co’ le trecce e la zazzerina…

Quelle bambole io le toccavo coll’occhi: la bocca ’rrossettata, le ciglia lunghe che s’abbassavano vergognose, le mani ’n bella mostra coll’unghie tinte di rosso… Ma erano tante, erano troppe quelle bambole pe’ potelle guardà tutte a fino a fino.

E io avrei voluto ésse la su’ nipote, così, a Argia gl’avrei potuto di’: “Zia, la posso tené ’n collo quella bambola col vestito rosa?”

E lei di sicuro m’avrebbe detto: “Prendila pure bella, ma reggila forte eh! ché se ti casca si rompe ch’è di coccio!”

E io gl’avrei alzato subito ’l vestito pe’ vedé la sottogonna inamidata, eppoi l’avrei rigirata sottosopra pe’ fagli di’: “Ma  mm a, ma mm a…”

Se fossi stata la nipote di Argia, sarei stata sempre lì e avrei raccattato tutti i pezzetti di stoffa che cascavano giù dal tavolino quando lei tagliava, e con quelli: i più belli, avrei cucito tanti vestiti modosi, pròpio come quelli de le su’ bambole.

Argia lo sapeva che a le cittìne come me gli garbavano le bambole e le stoffe, e lei, ogni volta sceglieva qualche ritaglìno e mi diceva: “Ti piace questo colore? E questo?”

“Sì…”

E io mi guardavo le mani piene di cencini sfrangiati, e col cuore che mi rideva pensavo che quel tesoro era tutto mio!

“Lo sai che la settimana prossima devo cucire l’abito a una sposa? quando lo taglio ti lascio una strisciolina di tulle: sei contenta?”

Altro che contenta: Argia m’aveva promesso qualcosa di più d’un pezzetto di stoffa, ché ’l velo d’una sposa è ’na cosa da Regine, da Fate…

E quando la mi’ mamma mi pigliava per mano e s’avviava verso l’uscio, io pianino pianino gli dicevo: “Dài, stiamoci n’altro pochino qui da Argia…” ché la mamma de le bambole n’era noiosa come l’altre donne.