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La donna di città che sogna la campagna (da “Il Mestiere Finito”)

Inizia da oggi la pubblicazione di alcuni estratti dai libri di Luciana Bellini che ci aiuteranno a conoscerla più a fondo, nel suo essere donna prima che scrittrice. Fra le righe di questi brani trapela il temperamento indomabile di questa maremmana “purosangue” senza peli sulla lingua, che non ha paura di mostrarsi per quella che è, senza piaggeria o sovrastrutture. Siamo sicuri che vi piacerà per la sua schiettezza e ricerca della verità, anche se a volte scomoda. Partiamo con un estratto da “Il mestiere finito” sulla donna di città che vuole trasferirsi in campagna, un ritratto spietato di una società provinciale di ieri che si rispecchia anche oggi nei toni di un dialogo fra donne crudo, ma al tempo stesso realistico e a tratti esilarante. Buona lettura!

“Quanta natura, che aria pulita…. questo è un posto da sogno! Sapesse signoramia quanto mi piacerebbe trasferirmi in campagna… Vorrei viverci per sempre! Dovrei pensarci seriamente: lasciar perdere il lavoro, dimenticarmi della Carriera…. Forse lei non se ne rende conto ma, la sua è davvero una situazione privilegiata!”

Merda quanto so’ rincoglionita: rincoglionita e distratta! Dovrei sentimmi più moglie d’un Principe che una cenerentola in ciabatte, pensavo, e dentro di me già friggevo.

Te non ci crederai Angiòlo, che io pe’ non rubagli la scena ringollai le parole: facevo sisì e nonò col capo e basta.

E mentre lei: blablablà blablablà, imperterrita andava avanti col su’ barroccìno, io la osservavo a fino a fino. La pelliccia sul biondo come i su’ capelli, il cappellino in tinta, la borsa firmata a doppia mandata… e che scarpe lustre, che tacchi! Non c’aveva una virgola fòri posto: il colorito de le gote, i labbri verniciati di fresco, l’ombretto sfumato, il rimmel dosato al grammo. Maremma-diavola, a me pe’ fa’ tutto quel popò di lavoro ’un mi basterebbe mezza giornata, commentavo io, acida.

Davvero Angiòlo: da quant’era ripulita pareva finta. Ti dico che, se avesse avuto le gambe più lunghe d’una quindicina di centimetri, le pocce tre misure sotto e ’l culo meno slabbrato, dopo avegli levato ’na ventina d’anni e ’na diecina di chili di dosso, era Barbie nata e sputata. E io, più che maligna dicevo tra me e me: chissà il su’ Big Gim, come sarà?! Forse, come tutti i Principi del mondo anche lui non aveva il dono dell’ascolto e, lei si sfogava con chi gli capitava a tiro.

Eh no davvero: quel monologo non lo dovevo interrompe’. Che so’ una senza istruzione è vero, che mi manca del tutto il tatto, non ci piove, però, in quel momento m’ero resa conto che io facevo un’opera di carità cristiana.

E’ vero che a quella Signora gli rispondevo a tono, ma dentro di me e basta:

“Signora, lei scherza vero? Una persona fine come lei, non ce la vedo proprio rinchiusa in un podere. Guardi che la campagna non è quella che ha in testa lei: altro che aria pulita! Sentisse che puzzo viene da la pecoraréccia quando tira lo scirocco. E sapesse che vòl di’ campà col guadagno del podere e basta! Lei è abituata a la busta paga, a la tredicisima e magari cià anche la quattordicesima. A noi, non ci pagano né straordinario né ferie, e le festività non so’ retribuite manco quelle! Qui al podere, caraLei, il rosso del calendario non vòl di’ che si fa festa: l’animali vogliono ésse governati e munti lo stesso. E, se c’è da finì di sementà d’urgenza ché ’l tempo si mette al brutto, non si porta rispetto né ai Santi né ai Morti. I campagnoli fanno festa se so’ a letto coll’influenza ma di quella con un febbrone da cavalli e, ammesso e non concesso che ci sia qualcuno che lo rimpiazzi ne la stalla.

Dia retta a me Signora, laschi perde’! Qui, coll’aria che tira anche la su’ pelliccia piglierebbe di tanfo, e con coteste scarpe… Lei non lo sa, ma quest’erbettina gentile, spesso e volentieri è fanghiglia: quando piove, fai du’ passi e, ti trovi impantanata fin’all’occhi!”

Te Billo, un pochino mi conosci, ma lei ’nno sapeva mica che pollo ero io: di certo non se lo immaginava che via via gli smontavo tutto ’l ragionamento.

Poretta, lei sempre più convinta decantava ’sto Paradiso Terrestre dove noi si razzola da sempre, e io sempre più inguastita gli rispondevo pe’ le rime:

“Signoracara, ci ripensi! non se le faccia venì certe voglie! Non vorrei che ’l ventarone gli struffasse la chioma e la tramontana gli spellasse la faccia: la sua è davvero una carnagione di velluto! Signora, la campagna, imbruttisce! il sole, il gelo… Vedesse che lavoro gli fa il freddo al seme: quel filino sbuca da la terra sicuro e rigoglioso, eppoi arriva ’na freddata e l’avvizzisce tutto, lo secca! Anche l’aspetto di chi la terra la lavora da sempre, cambia a seconda dei lavori e de le stagioni. Chi coll’aratro viaggia avanti e ’ndietro a giornata quando scende dal trattore anche lui ha ’l colorito de le zolle: i panni che ha addosso so’ polvere pura, e le piastrelle de la doccia quand’ha finito di lavassi da bianche so’ diventate marroni.

E l’afa? Il bollore de la trebbiatura, i tafani, le zanzare, le serafiche… la pelle, Signora, ci rimette!

La campagna è bella, però è lontananza: il cinema, il teatro, i negozi, campa cavallo. Anche l’ospedale non è a du’ passi e, lontano il male come dicevano una volta, facciamo le corna  e gli scongiuri Signora, diciamo pure ai nostri uomini che si tocchino lì, ma se ti viene un coccolone all’improvviso… Dice bene Signora: anche in città bisogna fare i conti con le distanze. Infondo Grosseto è solo a 45 chilometri da qui e, se la strada è tutta curve, pazienza: tuttalpiù si vomiterà nell’ambulanza.

E noi Signora, siamo fortunati: c’è chi sta parecchio, ma parecchio più lontano! In questo nostro bel territorio ci so’ strade e poderi scordati dal mondo.”

Te Angiòlo non ci crederai, ma io m’arrovellavo, che fò: glielo dico? Sarà meglio l’avvisi. Il proverbio è chiaro: òmo avvisato, mezzo salvato! (continua)