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Nella giornata della memoria per non dimenticare…

Anche la Maremma vive la giornata della memoria voltandosi indietro a una delle pagine più buie del Novecento. Questo racconto di Luciana Bellini, tratto dal suo libro “La Capitana – Vita di mezzadri in Maremma” (Stampa Alternativa) s’ispira a un fatto realmente accaduto come ce ne sono tanti, di cui magari non si ha memoria perché restano chiusi nei cassetti o nei cuori di chi li ha vissuti in silenzio. Episodi, come questo, che parlano di dolore, sofferenza e di quelle inutili atrocità che hanno macchiato la nostra storia e che in giornate come questa vanno ricordati e rivissuti.

BRUNO A SCUOLA DAL NERI

A la Capitana io c’ho fatto la terza eppoi la scuola serale: ma quella doppo però.

‘N prima elementare su a Poggioferro c’andai col cappello da Balilla, e la Maestra Barberina mi picchiava ‘l righello ne le mani perché adopravo la mancina e no’ la man-dritta. ‘N terza bocciai: “Non ha più voglia, ma per lui basta anche così” gli disse a la mi’ mamma.

Però lei gni dètte retta e, come s’arrivò a la Capitana mi volle fa ripète la classe. Ma erano più i giorni che saltavo la lezione che quell’altri, e sicché la terza rimase lì.

Ero digià grande quando la sera andavo dal Neri. La Maestra de la scuola serale era ‘na signorina d’una trentina d’anni, forse più forse meno; ‘na persona seria, calma. A di’ la verità, io ‘n pochino mi vergognavo: co’ la cosa ch’ero stato bocciato più d’una volta, mi sentivo ‘n gran somaro.

S’era ‘n diversi tra ragazze e giovanotti: ‘na ventina e forse più, e anche se suppergiù s’era tutti ne le medesime peste, a me mi pareva d’esse ‘n gattino rifrugato. Zitto e vergognoso: ‘l mi’ carattere era quello, e le mi’ sorelle dicevano sempre che pe’ cavammi ‘na parola di bocca ci voleva ‘l tirabusciò.

Anelito, Gino, Leopoldo, leggevano male come me, ma loro facevano ‘na spallucciata e via, io ‘nvece mi sarei ‘infilato sottoterra. Quella donna però c’aveva ‘na gran pazienza co’ noi, sempre c’incoraggiava a andà avanti, e a me mi garbava proprio per quel modo leggero e mai superbioso.

S’era tutti campagnoli cenciosi fangosi e stanchi, ché tutti, chi più chi meno, si doveva fa ‘n bel pezzo di strada a piedi pe’ arrivà a scuola. C’era Angela col su’ fratello Aristeo che venivano da ‘n podere vicin’ a Montiano e altri du’ o tre da Montebottigli.

Qualcosa ‘mparavo, anche se sempre sempre ‘n c’andavo, ché le più volte ero troppo stanco e com’avevo finito d’ingollà ‘l boccone mi cascava ‘l capo nel piatto.

A la fine dell’anno co’ la Maestra c’era più confidenza, e così lei ci raccontò qualcosa di suo: era stata fidanzata pe’ tanti anni, ma poi quand’era arrivata l’ora di mette’ su casa, lui fu ammazzato dai fascisti. ‘N partigiano come tanti, e quel giorno presero e li fucilarono. Tutti giovani senza macchia e senza peccato…

‘L ventidue di marzo la mattina

Partono da Grosseto gli assassini

decisi di fa’ carneficina.

Contro questi ragazzi poverini

questi ragazzi erano pieni d’ardore

ma non volevano servire ‘l fascismo traditore!

Là ne la macchia dentro a ‘na capanna…

Ci disse che a Lavacchio, prima dell’esecuzione chiamarono i genitori ché l’abbracciassero pe’ l’ultima volta.

Una povera madre lì presente

che amava tanto le sue creature

si fé coraggio e parlare si sente

in un momento di grande dolore

lei s’inginocchia e le baciava i piè

fate vive’ i miei figli

uccidete me…

La nostra Maestra ci disse che lei ‘n si sarebbe sposata mai più!

Qualcosa già sapevo di quella storia, ma raccontata da lei mi fece ‘n altr’effetto.